Mamma
Driiin driiin driiin … il suono della sveglia mi fa sobbalzare.
Mi giro e allungo istintivamente il braccio verso sinistra per cercare il tasto pausa della sveglia e svegliare mio marito; ma c’è qualcosa di strano, infatti, non è mio marito! E’ più stretto e decisamente più corto; inoltre grugnisce in maniera sospetta.
Cosa succede? Sarò mica sonnambula? Poi, improvvisamente, tutto è chiaro: mi ricordo di avere tre figli di dodici, sette e tre anni che, talvolta, durante la notte, cambiano la loro postazione di partenza.
Questo dev’essere Filippo, quello di mezzo, incursore specializzato, capace di introdursi di soppiatto nel letto nel cuore della notte senza neppure svegliarti.
Ecco, ora capisco come mai sognavo di essere sul bordo di una barca a vela sul punto di rovesciarsi. Mi giro dall’altra parte: davanti a me, nel buio, due occhi da furetto mi scrutano in silenzio. Mi sento accerchiata. E’ Andrea, quello piccolo, che mi fissa con, in bocca, il ciuccio e in mano quattro pupazzi di taglie diverse (tra cui una tigre di peluche grande quasi quanto lui).
Bene, ce la posso fare. Mi alzo, mi lavo, mi vesto, mi pettino, preparo la colazione, contratto sull’abbigliamento (ci sono cinque gradi, ma vogliono uscire tutti con le maniche corte), blocco sul nascere almeno quattro principi di rissa. Ed eccoci qui, pronti a uscire da casa.
Nel frattempo, Matteo (il dodicenne), m’informa che, se le dò tutte vinte ai suoi fratelli a sette e tre anni, quando ne avranno tredici, la situazione mi sarà completamente sfuggita di mano; al tempo stesso, però, mi rassicura comunicandomi che “un buon collegio o un bravo psicologo possono fare miracoli”.
Davanti alla porta si schierano ben otto borse da trasportare fuori. Nell’ordine: tre zaini per la scuola, due borse per il calcio, uno zainetto per il nuoto a forma di macchinina, una cartellina da disegno, la mia valigetta piena di pratiche per le udienze della mattina, oltre ad un biberon che sgocciola pericolosamente e ai quattro peluche di Andrea (non intende separarsene).
Sembriamo un gruppo di alpinisti pronti per raggiungere il campo base dell’Everest con tanto di provviste per la sopravvivenza per più giorni (io sono lo sherpa).
Avvocato
Finalmente sola, i bambini recapitati alle rispettive scuole, mi dirigo in macchina verso il Tribunale.
L’udienza è fissata per le nove e trenta e devo anche cercare parcheggio. Il tempo non è molto; oltretutto devo pensare a cosa dire nella discussione.
Ma ho la soluzione: basta ripetere a voce alta la mia arringa mentre guido; per essere più realistica interpreto anche il ruolo dell’avversario.
Mi calo nella parte e mi sento molto convincente; al semaforo sono ormai alle fasi finali e gesticolo parecchio.
Infatti, il venditore ambulante di fazzoletti mi guarda con sospetto; va beh, non c’è problema, faccio finta di cantare.
L’udienza fila liscia, il traffico è clemente, ed eccomi in ufficio.
E da qui, per un certo numero di ore, scompare tutto il resto ed entro in una dimensione parallela fatta di contratti, documenti, scadenze, norme da interpretare (ma perché le fanno così complicate?), telefoni che squillano e persone tesissime.
E’ un mondo a sé stante, pieno di cose bizzarre.
Ci sono libri, codici scritti con caratteri piccolissimi, computer, stampanti, fotocopiatrici che generalmente si rompono quando devi mandare venti copie di qualcosa entro i prossimi quindici minuti, toghe, fascicoli impolverati dai quali, a volte, escono minuscoli insetti, e comparse piene di parole e frasi in latino.
Il problema è che il tempo si mette ad andare velocissimo e di colpo, come nella favola di Cenerentola, si sentono i rintocchi delle ore sedici, senza che io sia riuscita a interpretare neppure tre o quattro norme come si deve.
Una via di mezzo
Scappo dall’ufficio tra una telefonata e l’altra e volo a scuola a recuperare i bambini; durante il tragitto ripeto mentalmente i fondamentali passaggi per essere sicura di non sbagliare: prendo Filippo e lo porto a calcio, poi prendo Andrea e lo porto a casa; infine prendo Matteo e lo porto al bar a fare merenda (non è il massimo, ma di meglio non riesco a fare).
E’ come il gioco delle tre carte, l’importante è non perdere il filo.
Durante il tragitto incontro altre mamme e a tutte ripeto ciò che sto per fare (così la sequenza si imprime meglio nella memoria).
E finalmente, dopo un discreto numero di spostamenti, ecco la sospirata porta di casa!
Entro con la soddisfazione di un centometrista arrivato al traguardo, ma dietro la porta mi aspetta Andrea armato di trenino Thomas! “Ecco la mamma, ora facciamo una bella pista” (ho ancora il cappotto indosso). “Dai, mamma, te lo scongiuro” (ma questa dov’è l’avrà sentita?). Vabbè amore, se “me lo scongiuri…”.
Mi armo di pazienza e di binari del treno, ma l’insidia è dietro l’angolo.
Suona il cellulare: è l’amministratore di una società cliente; mi informa con entusiasmo che sono in viva voce con un certo numero di persone che intendono sottopormi un interessantissimo quesito in tema di gare d’appalto.
Il mio cervello lavora velocemente: per prima cosa devo trovare un DVD da piazzare nel televisore (trovo Biancaneve e i sette nani, non è il preferito dei bambini, ma fa lo stesso).
Ecco, ora mi chiudo in bagno e assumo un tono professionale.
Per qualche minuto sembra funzionare; del resto non mi vedono, potrei benissimo essere in ufficio.
A un certo punto, sento la stanza invasa da una musica fortissima: è il coro dei sette nani che si recano al lavoro in miniera.
I bambini hanno alzato il volume al massimo e non sanno come fare a diminuirlo. “Mammaaaa!”.
Al coro dei sette nani si aggiungono urla disumane (ma perché gridano tanto?) e colpi alla porta. Accidenti, mi hanno trovato, se apro la porta del bagno è peggio, entreranno come furie. I clienti dall’altro capo del filo assumono un tono preoccupato (cosa ci fanno i sette nani, per di più indemoniati, in uno studio legale?).
Cerco di dare la soluzione più in fretta che posso e mi libero della telefonata. Finalmente apro la porta e mi decido a uscire. “Mamma?” “Che c’è tesoro?” “Potevi dirlo che giocavamo a nascondino”.
Calmo le acque e mi dirigo in cucina (un bel pezzo di cioccolato non me lo leva nessuno).
La casa è silenziosa (cosa staranno tramando?); il cioccolato mi tira su di morale; il telefono squilla di nuovo.
Questa volta è mio marito: “Ciao, ti ricordi?” “Usciamo alle otto”. “La baby sitter arriva alle sette e mezzo per tenere i bambini”. “Ci sarà parecchia gente”. “Mi raccomando, sii puntuale”.
“Sì, certo che mi ricordo!” “Perfetto, a dopo”.
Moglie
Che bello! Usciamo! Sì, ma per andare dove? Brancolo nel buio. Non mi viene in mente niente; eppure me l’ha detto di sicuro.
Al cinema no (“ci sarà tanta gente….”); e direi che escludiamo anche una cenetta romantica a due (sempre per la stessa ragione). Ecco, ci sono: è l’inaugurazione del famoso locale (l’ho convinto io ad andarci, organizza la mia amica).
Benissimo, è tutto molto semplice, devo solo prepararmi, sfamare i bambini, lavarli e preparare gli otto zaini per la scalata dell’Annapurna di domani mattina. Il gioco è fatto.
Ed ecco la fatidica domanda: oddio cosa mi metto? Un bel tubino nero, così non sbaglio? Qualcosa di più originale? Decido di consultare le amiche più care: “Io un bel vestito nero con calza nera”; “io gonna nera e maglia nera”; “io pantalone nero e top nero”; “io indecisa tra quattro vestiti neri di lunghezza diversa”.
Tutto molto bello ma così sembreremo un esercito di formiche! Ed ecco l’idea vincente: un bel vestito colorato, così in mezzo a tutto quel nero mi noteranno di sicuro.
Filippo insiste per un improbabile abitino in paillettes a righe orizzontali (un tantino eccessivo, e poi sembro l’ape Maia); opto per un abito rosso, scarpe con tacco dodici e borsetta con Swarovski (Filippo non demorde, pretende almeno qualcosa che luccichi), e mi dirigo fiera verso l’uscita.
Nel soggiorno mi aspettano quattro uomini di altezza diversa: uno (mio marito), sulla porta, perfetto e vestito di tutto punto (ma come diavolo fa?); gli altri tre in pigiama in fila per salutarmi in ordine di altezza (aspettano il loro turno per baciarmi, un po’ come i nani di Biancaneve).
Quando arrivo a quello piccolo, lui si emoziona un po’, si leva il ciuccio e mi sussurra nell’orecchio con fare da cospiratore: “Mamma, sei più bella tu di papà … e poi sei rossa, come Saetta McQueen”.
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