La settimana bianca prima dei bambini, sul cucuzzolo della montagna, si svolgeva più o meno così.
Risveglio; sguardo dalla finestra per verificare le condizioni del tempo e ammirare il meraviglioso gruppo del Catinaccio/Latemar; colazione abbondante con caffè, pane tostato e fantastiche marmellate fatte a mano; studio della cartina e programma della giornata di sci; piste innevate; sosta nel rifugio con vista mozzafiato e piatto di speck tagliato al coltello; altre piste innevate; piccolo drink doposci con sottofondo musicale; sauna o altre amenità wellness e, infine, cena a lume di candela in ristorantino tipico con solo quattro tavoli ed enorme camino scoppiettante al centro della sala.
Insomma, all’incirca ciò che viene rappresentato in quasi tutti i depliant della vacanze invernali in Trentino Alto Adige e Sud Tirolo: in poche parole, una settimana di relax e contatto con la natura capace di riconciliarvi con la vita dopo un intero anno di stress metropolitano.



Questa invece la settimana bianca di una famiglia tipica con tre bambini di dodici, sette e tre anni (la mia).
Driiin! Driiin!
Il grande: “Mammaaaaa!” “Perché suona la sveglia alle 7.30, anche se siamo in vacanza?” “Non c’è mica scuola!”
“Ma tesoro, lo sai che avete la scuola sci alle 10.00; due ore e mezzo sono il minimo indispensabile per vestirci, fare colazione e recarci al campo scuola di fronte alla porta dell’albergo”.
Il medio: “Papi, stasera possiamo fare un torneo di calciobalilla?”
“Sì certo, amore, adesso però concentriamoci sulle prossime due ore che ce n’è d’avanzo”.
Il piccolo: “cough, cough, cough”, colpi di tosse catarrosa a ripetizione (ma quando gli è venuta? Stanotte?)
Va beh, la cosa migliore è portarlo a sciare, d’altronde lo dicono tutti che l’aria di montagna fa miracoli….
“Dunque bambini, mettetevi le vostre: mutande, canottiere, calzettoni, maglie termiche, pile, salopette da sci, giacche a vento, caschi, occhiali, guanti; e che nessuno perda d’occhio lo skipass se no siamo finiti”.
Sei occhi mi guardano come se fossi pazza e quello piccolo dichiara risoluto: “Io quei pantaloni lì non lì metterò mai. Mai”.
Finalmente, dopo venticinque minuti di caccia al tesoro per scovare tutti i pezzi di tre tenute da sci, e una colazione che fila via abbastanza indolore (anche se io, più che assaporare le marmellate fatte in casa, trangugio un caffè e un succo di frutta), ecco il momento clou della giornata, temuto anche dai genitori più scafati ed intraprendenti, ovvero la discesa nel deposito sci e scarponi per la vestizione.
Ora, già indossare un paio di scarponi stretti come stivaletti malesi in una stanza con trenta gradi celsius è roba forte, ma pensare di doverne infilare e chiudere quattro paia è per fisici decisamente allenati.
Io non sono assolutamente in grado; per fortuna interviene la figura paterna.
L’operazione richiede svariati minuti (impossibile che su otto scarponi non si incastri nemmeno un gancio), durante i quali i bambini si aggirano per la stanza come piccoli astronauti nella navicella spaziale (è fatto loro divieto di togliersi anche un solo pezzo, il cui smarrimento prolungherebbe la sosta oltre il limite tollerabile) ed il padre, accucciato per terra e sudato come un cammello, si domanda quale ragione masochistica ci spinga ogni anno a tornare ostinatamente in montagna.
Completata la chiusura degli scarponi, ecco che puntualmente il piccolo esclama: “Mamma, mi scappa la pipì”.
“Ma amore, non potevi farla mentre eravamo in camera?”
“Ma no, mamma, prima non mi scappava!”
Infine, usciti dalla stanza delle torture, lasciamo i bambini alle rispettive scuole sci, il cui orario termina alle 12.30.
A questo punto l’ideale sarebbe tornare a dormire: invece no, ci catapultiamo sulle piste come kamikaze tentando di comprimere in due ore e mezzo quella che una volta era l’intera giornata di sci, salendo e scendendo come forsennati dalla seggiovia, senza un attimo di sosta, per poi arrivare, trafelati, a riprendere i bambini all’ora stabilita.
Seguono, nell’ordine: sosta nella baita con visita di un’ora alle toilettes (siamo in cinque, vestiti come per la traversata di Marte); lunga trattativa per far ingurgitare al piccolo sette (di numero) penne al pomodoro; altre piste e trasferimento in albergo, dove io svengo esausta sul letto.
Naturalmente i bambini, per nulla affaticati, vogliono scatenarsi almeno un’ora in piscina e la magnifica sauna ristoratrice di una volta ora mi appare come l’unico rifugio dove poter stare un po’ da sola (purtroppo per non più di otto minuti, altrimenti mi ricoverano).
Invece della romantica cena a lume di candela, la giornata si conclude con un fantastico torneo di calciobalilla nella sala giochi situata nello scantinato dell’albergo; i bambini fanno la conta: chi perde sta in squadra con me.
Finalmente crollano.
Dopo essersi scannati per tutto il giorno, dormono abbracciati.
Mi avvicino alla finestra per guardare fuori (il famoso sguardo che una volta davo appena sveglia).



Il gruppo del Catinaccio/Latemar è sempre lì, immobile e maestoso, ancora più bello illuminato dalla luna che fa brillare la neve di minuscole scintille.
Adesso mi ricordo come mai, ogni anno, non possiamo fare a meno di tornare.
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complimenti!!!
La montagna anche se faticosa e’ sempre
la montagna e dal tuo racconto emerge benissimo quella sensazione di benessere che e’ capace di darti sempre e comunque … Anche con tre folletti e le loro esigenze. Brava Ale, sensazioni
Perfettamente trasmesse! Ciaooooo
Grazie Silvia! Detto da una grande esperta di montagna come te vale doppio.