L’arrivo a Manhattan

Dopo la West Coast (potete leggere il racconto cliccando qui), è la volta di NYC.

Manhattan è un posto magico, che suscita in noi, ogni volta che torniamo a NYC (come probabilmente nella maggior parte degli esseri umani) grandi emozioni, ed anche curiose trasformazioni.

Io, per esempio, non appena messo il piede giù dall’aereo, non sono più io, ma Carrie Bradshaw di Sex and The City, e m’immagino di correre in mezzo al traffico alla ricerca di un taxi con un paio di Manolo Blahnik ai piedi e un Cosmopolitan in mano.

Mio marito, cultore ed appassionato di Woody Allen da tutta la vita, inizia a parlare attraverso simpatiche metafore e si rivolge a me come se fossi Diane Keaton.

I bambini si trasformano nei personaggi di Madagascar e assumono, rispettivamente, i ruoli di Alex il leone, Martin la zebra e Melman la giraffa.

La cosa, di per sé, non è grave, ma diventa leggermente problematico fare dei programmi sensati, perché ognuno ha una propria visione molto personale di cosa fare.

Ognuno ha la sua NYC

Io, essendo Carrie, a NYC intendo passeggiare tra West Village e Tribeca, con qualche puntatina nel Meatpacking district, contemplando al massimo di spingermi sulla Madison per un po’ di shopping supplementare; mentre Woody desidera attraversare Central Park in lungo e in largo, con qualche capatina nell’Upper east side (ma non disdegna Brooklyn, per visitare i luoghi della sua infanzia).

I bambini si dividono: il dodicenne gradisce fare un paio d’ore di coda in mezzo ad altri adolescenti assatanati davanti ad Abercrombie, sulla Fifth Avenue, mentre il collezionista di souvenir, detto anche “l’architetto”, vuole salire su tutti i grattacieli che incrociamo (cosa che, nel centro di NYC, richiede un certo impegno).

Ma chi ha le idee più chiare è quello di tre anni: lui desidera passare l’intera settimana all’interno di un megastore di giocattoli, reparto macchinine di Cars, uscendo solo per rifornirsi di Coca cola (a suo giudizio, più che sufficiente come unico alimento per il proprio sostentamento).

Il Guggenheim Museum

Dopo ampia discussione prevale Woody Allen (io vengo tacitata con un cupcake da Magnolia Bakery), ed eccoci catapultati all’interno del Guggenheim Museum lungo il suggestivo percorso elicoidale disegnato da Frank Lloyd Wright (ribattezzato dai bambini “quel silos dove si corre in discesa”).

Portare i bambini al museo di arte contemporanea a NYC è divertentissimo: mentre noi ci aggiriamo tra le opere d’arte, cercando di assumere un’espressione interessata e compita, loro gridano a voce altissima: “Mamma!” “Guarda qua!” “C’è un sasso con sopra una lampadina!”; “e cos’è questo?” “Un bastone arrugginito!”

Cerchiamo di distrarli indicando un famoso dipinto, ma non c’è verso: “Ma questa cos’è?” “Una tela con un buco!”.
Per fortuna, l’ultimo allestimento consiste in una stanza completamente rifasciata di dollari, compreso soffitto e pavimento, che ricorda in maniera incredibile il deposito di Paperon de Paperoni, il che li ammutolisce quel tanto che serve per uscire senza dare troppo nell’occhio.

La nostra serata

Decidiamo che quello che ci vuole è una bella serata da soli, senza bambini, per appagare la Carrie che è in me, e provare l’emozione di cenare in un locale senza Mac and cheese e contrattazione sul numero di patatine fritte consentite.
Si configura quindi un momento delicato, cioè la ricerca della baby sitter.

Il mio retaggio di mamma leggermente paranoica mi fa pensare che la baby sitter debba necessariamente venire dal Bronx, piena di pearcing e vestita come la sorella di Fifthy Cent; invece, com’è più che ovvio, si presenta una gentile signora di mezza età che ci chiede educatamente in un perfetto italiano se i bambini hanno qualche allergia e a che ora desideriamo che vengano messi a dormire.

Lo sforzo organizzativo viene ripagato dalla bellezza della serata e dalla magia del posto prescelto.

230 Fifth, Manhattan Rooftop

Il locale l’ho scelto io, è un rooftop segnalato dalla mia preziosa app, non lontano dall’Empire State Building, il 230 Fifth.
Si aggregano un paio di amici, e io guido la comitiva; ho qualche dubbio, non ci sono mai stata, e quando arriviamo ai piedi del grattacielo c’è solo una minuscola scritta che indica l’ascensore ed il piano cui salire.

All’uscita bisogna suonare a una porta e poi salire una scala … ma in cima alla scala si apre una terrazza incredibile e lo scenario è mozzafiato.

E’ tutto buio con solo le lucine sui tavoli e, intorno a noi, s’illumina lo skyline dei grattacieli di Midtown; sono talmente vicini che sembra di poterli toccare.
E’ pieno di gente e la musica è fantastica … sembra di stare nella pubblicità dello Jagermeister!

Inoltre, per scaldare gli avventori freddolosi, vengono offerte mantelline rosse lunghe fino ai piedi che aumentano il colpo d’occhio; una via di mezzo tra Eyes Wide Shut e un raduno di fanatici di Cappuccetto rosso.
La Carrie che è in me esulta, gli amici sono raggianti; perfino mio marito è tentato di dismettere per un attimo i panni di Woody Allen e assumere quelli di Mr Big.
Purtroppo, come nella migliore tradizione, l’incanto finisce a mezzanotte, dovendo la baby sitter tornarsene a casa sua ad Astoria; torniamo un po’ trafelati, fortunatamente la nanny non si è trasformata nella controfigura di Jack lo squartatore, ma ci aspetta sorridente, i bambini dormono come tre angioletti.

Conclusione

Dopo bandiere americane, orsi, litri di Coca Cola e tonnellate di hamburgher, è ora di tornare, ma con tutti i souvenir che abbiamo acquistato (non ultimo un enorme toro di Wall Street placcato in simil oro), non temiamo di sentirci soli dall’altra parte dell’oceano.

Se hai perso le due puntate precedenti di questo racconto di viaggio, le puoi recuperare qui e qui.